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Tim Buckley vs Jeff Buckley. O forse no

Buckley

Un padre e un figlio uniti dallo stesso destino. Tim Buckley padre non lo è mai stato effettivamente e il figlio non ha mai conosciuto il padre. Un padre che all’apice del successo affascina il figlio al punto da intraprendere la stessa carriera. E il figlio, Jeff Buckley che surclassa il successo e la tecnica del padre.

A tratti la critica musicale dirà che Jeff è il figlio d’arte del noto Tim Buckley, e il suo contrario Tim è il padre del più famoso Jeff Buckley. L’unica verità è che entrambi sono artisti di classe che hanno segnato rispettivamente la propria epoca.

Tim Buckley, il poeta dimenticato

Il cantante di “Goodbye and Hello” (1967) e “Starsailor”, muore il 29 giugno 1975 per un’overdose. Ben prima della sua morte era stato consacrato come leggenda del country, del folk e antesignano della nascente psichedelia. È il momento di riscoprire la discografia di questo cantautore dalla voce e dall’intensità angelica. Sì, ma di un angelo caduto e sofferente.

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Tim per inseguire il sogno di diventare un musicista, abbandona la compagna e violoncellista Mary Quibert ancor prima che il figlio nascesse. I suoi brani geniali, profondi e originali lo accostano a giganti come Tom Waits, Bob Dylan e Leonard Cohen. Uno dei suoi collaboratori era solito sostenere che Tim Buckley ha fatto con la voce ciò che Hendrix ha fatto con la chitarra.

Per capirlo basta ascoltare “Dolphins”, un brano scritto da Fred Neil e contenuto nell’album “”Sefronia” del 1973. Qui, la modulazione della voce dai toni bassi a quelli più alti crea una specie di vertigine in chi ascolta. Siamo nella fase pre-sperimentale e già si avverte tanta sofferenza e disperazione.

Tra i suoi più grandi successi, indubbiamente, si deve annoverare l’album del 1969 “Goodbye and Hello” che contempla una delle più belle canzoni d’amore: “Phantasmagoria in Two”. Sulla sua falsa riga i Joy Division pubblicheranno undici anni dopo il singolo “Love will Tear Us apart”.

Phantasmagoria in two è un brano struggente, carezzevole che lascia trapelare nella sua delicatezza tutta la paura della solitudine e dell’abbandono, la richiesta di essere amati e soprattutto compresi.

Nel 1973, Tim Buckley decide di confrontarsi con un grande della musica: Tom Waits, con la cover di “Martha” – così come Jeff farà con “Hallelujah” di Cohen. Tim cambia l’arrangiamento, al posto del pianoforte, introduce i violini e la sua voce proietta il racconto d’amore in un futuro in cui il tempo guarisce le ferite, ma non ne cancella il dolore.

A distanza di tempo, sia Tim padre che Jeff figlio con le rispettive cover sembrano voler cercare nei brani reinterpretati una nuova dimensione. Tale padre, tale figlio.

Jeff Buckley, alla costante ricerca di sé

Jeffrey Scott Buckley, per gli amici e i familiari semplicemente “Scotty”, nasce nel 1966. Figlio unico di Tim Buckley di origine italo-irlandese e Mary Quibert, violoncellista di origini panamensi, greche, americane e francesi. Jeff non conoscerà mai il padre, salvo un fortuito incontro all’età di 9 anni, quando assistette a un suo concerto pochi mesi prima la sua scomparsa. Jeff ha sempre vissuto con il patrigno Ron Moorhead che contribuì molto alla sua formazione musicale. Il suo primo regalo fu un LP dei Led Zeppelin “Physical Graffiti”, e poi l’ascolto dei Queen, di Hendryx, i Who e i Pink Floyd.

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La prima esibizione pubblica di Jeff fu proprio in occasione di un concerto-evento in memoria del padre Tim, organizzato da Hal Winter e che si svolse il 26 aprile 1991 presso la chiesa di St. Ann a Brooklyn. In quell’occasione, accompagnato dal chitarrista Gary Lucas, Jeff Buckley suonò “I Never Asked You to be Your Mountain”, scritta dal padre e originariamente dedicata alla madre e al figlio. Poi eseguì anche “Sefronia”, “Phantasmagoria in two” e “Once I was” che eseguì a cappella dopo la rottura della chitarra.

Fu il commiato a un padre mai conosciuto. E l’inizio di una brillante carriera. Pochi anni dopo pubblicò l’acclamato e premiato album “Grace” (23 agosto 1994) che conteneva 7 brani inediti e 3 cover: “Lilac Wine” nella rivisitazione di Nina Simone, “Corpus Christi Carol” di Benjamin Britten e “Hallelujah” di Leonard Cohen che lo consacrò alla fama. Subito dopo il lungo “Grace-tour” di successo, Jeff Buckley stava già lavorando a brani nuovi per il secondo album che è poi stato pubblicato postumo con il titolo di Sketches for My Sweetheart the Drunk. Proprio il giorno dell’incidente, il 29 maggio 1997, Jeff aveva “convocato” la band per iniziare le registrazioni.

Tim e Jeff Buckley, un legame indissolubile

Ciò che unisce i due musicisti, oltre al legame di sangue, è la loro biografia con vicende parallele, ma soprattutto la qualità della musica. È vero che Tim Buckley non raggiunse il successo commerciale che sperava e inseguiva e che visse come una sconfitta che lo condusse alla depressione e all’abuso di sostanze stupefacenti. Al contrario, Jeff ricevette un immediato riconoscimento di pubblico e critica che fu stroncato dal drammatico incidente, l’annegamento nel fiume Mississippi.

Le circostanze tragiche e misteriose delle rispettive morti li ha proiettati entrambi, nel mito dei “virtuosi” maledetti: Tim muore a soli 28 anni, Jeff a 31 anni. I due destini si incrociano brevemente nel 1975 al Golden Bear, quando Jeff bambino assiste al concerto del padre – senza sapere ancora che lo fosse – e rimane affascinato dal carisma, dalla voce struggente e dalle melodie. Jeff è in prima fila e in quella serata sigilla un legame con il padre che travalica i confini di sangue per culminare in un’unione artistica.

Emblema di questa unione è il brano scritto da Tim Buckley per la moglie e il figlio e cantato da Jeff all’evento commemorativo del 1991: “I never asked you to be your mountain”.

— Onda Musicale

Tags: Jeff Buckley, Tim Buckley, Grace
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