Il songwriter Paul Pedana ci racconta il suo nuovo album “Moosehorn Algoreaper”.
Ciao Paul, sei conosciuto per essere un artista quasi indefinibile, una sorta di costante camaleonte, sai dire il perché?
Non so bene il motivo, credo che abbia a che fare con il nostro naturale cambiamento. Non credo che la musica che faccio sia disconnessa dall’essere me stesso. Quel “me stesso” cambia in continuazione e così cambia la musica. Molti cercano di rimanere riconoscibili anche per ragioni discografiche, a me non interessa, faccio ciò che sento in quel momento senza voltarmi indietro.
Ci sono mai stati eventi bizzarri nella vita che ti hanno ispirato tanto da poter scrivere un potenziale brano?
Costantemente. Quando ero rintanato in un villaggio sperduto nel nord della Lituania, e dalla finestra dello studio osservavo senzatetto e alcolisti trascinarsi per le strade. Mi chiedevo come potesse essere la loro giornata, dall’alba al tramonto. Così ho deciso di camminare nelle loro scarpe: percorsi le stesse strade, mi ubriacai, e guardai la desolazione in inverno di quei luoghi gelidi a meno venti gradi. Da quell’esperienza è nato “The Ghost In The Mist”, un pezzo che troverai nell’album “Moosehorn Algoreaper”.
Parliamo del tuo ultimo lavoro, il disco “Moosehorn Algoreaper”, una vera novità rispetto al Paul Pedana che tutti conoscono.
Come spesso accade nella vita, si muore e si rinasce. Questo album è il funerale del mio vecchio stile e la celebrazione di un nuovo me. Ho lasciato andare i suoni perfetti, i missaggi infiniti, tutte quelle cose levigate che non potevano raccontare la cruda realtà della desolazione umana. Volevo qualcosa di primitivo, di grezzo. Non potevo dipingere il dolore e la bellezza della disperazione con i trucchetti di un ingegnere del suono. Ci vuole coraggio, lo so, specialmente in un mondo dominato dalla tecnica e dall’ossessione per il raggiungimento di classifiche e statuette.
Ascolta il disco “Moosehorn Algoreaper” di Paul Pedana:
https://paulpedana.bandcamp.com/album/moosehorn-algoreaper
Mi sono liberato di tutto ciò che era superfluo. Questi sono suoni sporchi, grezzi, primitivi. Suoni che graffiano l’anima. È come versare del whisky su una ferita, senti il bruciore ma anche la guarigione. Volevo che l’ascoltatore sentisse ogni singola nota come una verità nuda e cruda, senza filtri.
In “Moosehorn Algoreaper”, ho scavato nelle viscere della mia stessa esistenza e delle storie che ho incontrato. Questo album è un viaggio nelle parti più remote del mondo, un inno agli invisibili e al loro modo di vivere. Se vogliamo anche un invito a guardare oltre le apparenze e abbracciare il caos. È una celebrazione della vita nella sua forma più autentica, lontana dalle luci scintillanti e dai finti sorrisi.
Come è nata l’idea di questo nuovo album?
Non ne ho idea, è venuto e basta. Anche se una grossa spinta è venuta un anno fa quando il mio amico Ken Stott mi ha chiesto se mi avrebbe fatto piacere stare a casa sua mentre lui era in Inghilterra a girare un nuovo film. Ho pensato che sarebbe stato un ottimo luogo per prendere ispirazione anche perchè è dannatamente isolata dal mondo quella casa. Io e Virga ci siamo persi nella sua immensa collezione di dischi, ascoltandoli ossessivamente. Sai, c’era qualcosa di magico in quel luogo, un silenzio assordante che ti costringeva a scavare dentro te stesso. Quel periodo, quella solitudine, è stato sicuramente l’inizio di questa idea folle che è “Moosehorn Algoreaper”. Le note poi sono arrivate come “fantasmi nella nebbia” quando poi ci siamo trasferiti in Lituania.
Quanto è importante per te la felicità?
Non ci credo, è una delle più grandi illusioni dell’essere umano. Credo nell’accontentarsi e nel godersi salite e discese della nostra vita, per quanto possa essere possibile. Ma alla favoletta della felicità ho smesso di crederci da molto tempo.
Il nuovo album Moosehorn Algoreaper sarà portato in Tour? Quanto è difficile organizzare una serie di concerti in Italia? Differenze con l’estero?
Si, faremo delle date sia in Europa che negli stati uniti, non saranno però annunciate in un’unica soluzione in quanto programmeremo passo passo i concerti. Per quanto riguarda l’organizzazione beh, In italia è dannatamente difficile parlare con un operatore di una compagnia di fornitura energetica, figurati organizzare un tour! All’estero le cose sono sempre più semplici da organizzare per me. Forse perchè lo faccio da una vita. Un’altra cosa che ho sempre notato è l’atteggiamento dell’italiano nei confronti di chi fa musica, la considerazione è molto legata al fattore della popolarità o del guadagno ed è sempre molto triste.
A quali cose pensi prima di un concerto?
Se ho lasciato acceso il fornello del gas.
Durante la tua carriera hai collaborato con tantissimi personaggi importanti, ma l’incontro più casuale che hai avuto con uno di essi?
Eh, ne ho viste davvero tante nel corso degli anni. Mi ricordo quella volta a New York quando Leona Lewis è saltata sul mio tavolo perché aveva paura di essere puntata da un’ape. Ci siamo ritrovati a chiacchierare per un’ora senza che io capissi chi fosse per i primi trenta minuti. Non abbiamo fatto musica insieme, ma è stata comunque una giornata interessante.
Poi c’è stato il lockdown. Io e la mia compagna vivevamo in un attico a Vilnius, e ogni sera ci perdevamo nei suoni del blues. Un giorno ho sentito Dan Patlansky con la sua canzone “Big Things Goin Down” e mi ha colpito il suo stile. Gli ho mandato un messaggio per complimentarmi e, scherzando, gli ho detto che sarebbe stato perfetto sul mio nuovo album. Alla fine, ha davvero registrato dei pezzi per me. È incredibile come certe cose accadano proprio quando meno te lo aspetti.
Ha qualche dichiarazione da fare che non è mai stata detta pubblicamente?
Si, mi sono sempre chiesto se con tutta questa chirurgia plastica di massa i cimiteri in futuro diventeranno discariche umane o stabilimenti di riciclaggio.
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