MusicaRecensioni e Interviste

Black Summer: il ritorno dei Red Hot Chili Peppers

Ne parliamo con Federico Francesco Falco, l’autore di “Anima da spremere. La musica di John Frusciante fuori e dentro i Red Hot Chili Peppers” (Officina di Hank, 2021).

John Frusciante è tornato! Una novità? Sì e no. Se il 3 rappresenta il “magico numero”, allora possiamo ritenere che questo suo “terzo movimento” sia quello definitivo: dopo essere entrato nei Red Hot Chili Peppers nel 1988 (fino al 1992), per poi ritornarci nel 1998 (fino al 2009), risulta chiaro che l’attesissimo – e inaspettato – ritorno con i Peppers del dicembre del 2019 sia quello definitivo.

Black Summer è il singolo che lancia il ritorno dei Red Hot Chili Peppers al completo (chimicamente parlando), con un album che sembra chiudere il cerchio di una band attiva dal lontano 1983. Il disco si chiama Unlimited Love, e sarà disponibile sul mercato dal 1 Aprile 2022. Le aspettative sono alte, ma anche razionalizzate in virtù del ritorno del suo principale chitarrista e compositore.

Per l’occasione, abbiamo contattato Federico Francesco Falco, autore di “Anima da spremere. La musica di John Frusciante fuori e dentro i Red Hot Chili Peppers” (Officina di Hank, 2021), un libro che ripercorre tutta l’incredibile carriera dell’eclettico chitarrista dei Red Hot.

Il videoclip di “Black Summer”, il nuovo singolo dei Red Hot Chili Peppers.
I Red Hot Chili Peppers sono tornati. Cosa ne pensi di “Black Summer”?

“L’ultima volta che ho sentito una canzone di John Frusciante con i Red Hot, non esistevano gli IPhone, mi ero solo appena iscritto a Facebook e usavo ancora MSN. Soprattutto però, i singoli uscivano con lo scopo di farsi comprare e poi convincerti ad acquistare anche l’album. “Dani California” fu l’ultimo di questa serie, una canzone ai tempi molto contestata e che rischiò anche una causa legale con Tom Petty. La gente nei forum fu pure abbastanza delusa per il ritornello “alla Ozzy Osbourne” considerato scarico,  l’unico punto su cui tutti concordavano positivamente riguardava l’omaggio a Hendrix nel solo. Il resto aveva diviso non poco.

Sedici anni più tardi, quasi nessuno compra più dischi, un biglietto per il concerto costa il triplo di allora e “Dani California” è diventata un classico. Un po’ perché effettivamente a bocce ferme si è sempre più ponderati, un po’ perché sono gli anni a rodare le canzoni.

È il turno di “Black Summer” che, in questo senso, è anche poco comparabile agli altri apripista. Non deve convincere nessuno a spendere dei soldi, se non quelli che ancora devono acquistare i biglietti per i concerti. Quindi la band non sembra voler puntare ad un pezzo “forte”, ma al brano più identitario. Qualcosa di accogliente per chi ha già abitato il loro suono. Come la copertina del disco, che non piace nemmeno a me, ma con quell’enorme asterisco sparato al centro mette subito le cose in chiaro. Chi è, dove vuole andare.

Ce n’era bisogno. Venivano da un disco che era stato scritto a metà da un produttore esterno (Danger Mouse), con un metodo che non era loro consono: senza jam e provando un po’ a strizzare l’occhio ai fan dell’R&B e tra i singoli c’era persino una cover. A me poi manco era dispiaciuto, ma affondandoci le orecchie ho sempre sentito un retrogusto un di…forzato. Come se si fosse un po’ costretti a cambiare non perché realmente motivati da una voglia di sperimentare (BTW), ma perché non hai più le carte da mettere sul tavolo e fare il tuo gioco.

Frusciante, dal canto suo, si era impegnato in un decennio intero a far scappare a gambe levate buona parte di chi aveva iniziato a conoscerlo con “Shadow Collide With People” e tutte le cose più vicine ai Red Hot. E qualcuno si stava anche preoccupando di COME fosse tornato nei ranghi.

Davanti a questo scenario, “Black Summer” non è solo la prima canzone che abbiano scritto nel nuovo corso; rappresenta soprattutto la rassicurazione che sono ancora quei quattro. Gli elementi che in gergo si chiamano “fan service” ci sono tutti: Kiedis e il suo “Get it On”, il modo in cui John attacca l’assolo “friggendo” la chitarra o la sua geometria iniziale di Flea; potrei citare anche il modo di lavorare sotto di Chad che mi ha ricordato “Californication” e le sue entrate “a pochi fronzoli” (e credo non sia manco a metronomo). L’insieme ha il suo perché, prima o poi qualcuno ti sorprende a canticchiarla, e non il ritornello, ma la strofa. La prima strofa è la cosa più orecchiabile, che ti resterà in testa infida in qualche modo in testa.

C’è chi pensa che suoni come una b-sides di “By The Way”, è vero, ma non è un insulto o un ridimensionamento. Per me, anzi, ci sono due spunti di riflessione a riguardo:  metà dei pezzi rimasti fuori BTW meritavano tranquillamente di entrare al suo interno, alcune ne avevano addirittura più diritto! Idem per “Stadium Arcadium”.

La seconda precisazione che mi sento di fare  riguarda il sound: è più “asciutto” rispetto a ciò che siamo abituati a sentire nei dischi della band, ma non nelle b-sides, che spesso erano zona più franca e a John veniva concesso più spazio per smanettare. Perché Rubin stava un po’ più da parte. “Whatever We Want”, “Lately”, “Rivers of Avalon”… Son tutti brani più da impatto e sbrigativi.

Magari nel presente si è deciso che quello stile di produzione meritava un disco. E potrebbe essere comunque la novità di una band che ha quattro decadi sulle spalle, forse tra le poche che sarebbe ancora lecito aspettarsi da gente di questa età. Volendo anche fare realistici con ciò che fanno gli altri colleghi coetanei.

La produzione è particolare, la qualità è migliore. Per ora non credo ci siano vere e proprie mancanze, prometto di tornarci quando avrò un file Flac tra le mani, per ora ciò che sento sono semmai le scelte sonore.

Oltre a certe b-sides, “Black Summer” si avvicina più al John del 2004, dai volumi creativi di quel secondo ritornello che ti esplode sulla tromba di eustachio che in “Stadium Arcadium” e non ci sarebbe mai stato secondo me. Non credo sia un pezzo “overprodotto” come quell’album, non per nulla a mixare sembra esserci solo Ryan Hewitt, che era con John in quegli anni da solista, così come al mastering del vinile ci sarà Bernie Grundman, una garanzia. Quest’ultimo curò il vinile di Stadium. Confrontatelo al Master del cd, non c’è paragone. È mi sa sarà così anche a sto giro.

Tornando a “Black Summer”, suona più minimal anche per altri motivi: sulla chitarra le sovraincisioni sono quasi zero, i cori solo accennati, a lanciare la voce più nuda di Anthony rispetto che a coprirla sotto al mantello delle backing vocals ogni santa volta com’era in Stadium. Può essere un’arma a doppio taglio sui ritornelli, qui è un po’ debole, ma è da sempre una fragilità dei Red Hot melodici. Sta di fatto che io non adoro nemmeno come è prodotta la voce di Kiedis in Stadium, quindi se vogliono cambiare approccio non sarò io ad oppormi. A seconda della tipologia dei brani troveremo pregi e difetti.

I punti di forza però vanno osservati con ancora più attenzione. L’assolo colpisce al cuore come sapeva fare a suo tempo, è quello ponderato, hendrixiano il giusto e non sborone alla Stadium. Se non ti sbriciola quel po’, tocca correre al cardiologo con urgenza. Si tratta proprio di quel genere di assoli che non senti più in radio e che sembrano stare andando in estinzione, dovremmo tenerceli stretti.

Il minimalismo non si ferma all’arrangiamento o alla produzione, influenza anche il minutaggio: non bisogna infatti sottovalutare il fatto che si poggi in soli due ritornelli senza strafare. E questo è un punto che fregava un bel po’ di pezzi (soprattutto singoli), in passato recente. Ma il l fulmine della mia analisi riguarda un altro aspetto che mi sta a cuore, forse più di tutti e che è rimasto sottovalutato in molte delle  prime analisi: la naturalezza.

La naturalezza è l’aspetto che negli ultimi Red Hot mi è più mancato. A volte facevano cose buone, in uno o due tentativi erano riusciti in qualcosa di davvero bello  (“Goodbye Angels”), ma quell’ingrediente oramai latitava. È quell’elemento che non ti fa sembrare che i musicisti stiano lavorando ma bensì creando, perché si divertono e hanno affiatamento. Qui c’è. Si sentono, nel loro rincorrersi e cercarsi.

Si, quei due. Quell’intreccio chitarra e basso che se ne va poi ad insinuarsi nella prima strofa. Il basso che passeggia sopra le corde di chitarra. A me a livello compositivo questa cosa mancava come l’aria. L’avevano sfiorato solo in “Encore”, ma il passaggio tra jam a canzone aveva rovinato quella intuizione. Qui no. Ed è una firma importante della band: o ce l’hai o non nessun produttore può venirti a portartela in sala avvolta in carta da forno. Flea ha passato dieci anni o nascondendo Josh, oppure provando a farlo “vincere”.

Personalmente credo questa formazione si possa permettere di fare canzoni di rock asciutte ed essenziali senza dover per forza sentirsi il dovere di bissare una “Otherside”. Per le mie aspettative è l’ideale: la chance di avere, tra due mesi, tra le mani un buon disco con pregi e difetti che mai e poi mai avrei pensato di poter più sentire. Non so voi altri che aspettative avete su questa Réunion, io non cerco più canzoni che mi salvino la vita da questi sessantenni, aspetto brani che mi aiutino a renderla più piacevole e che mi ricordino come  questo grande amore sia incominciato. Voglio abitare quel suono che mi fa sentire a casa, ma senza pretendere ciò che sentivo da ragazzino.

Diventerà un classico? Forse no oppure si, o forse non è nemmeno necessario. Non credo comunque lo scopriremo a breve, la stessa “Dani California” insegna, ma potrei citare anche “Fortune Faded”. Se c’è una cosa ho imparato è che certe sonorità vanno lasciate respirare e invecchiare con calma. Magari mischiarle alle proprie esperienze e poi tornare a risentire. Una cosa che posso assicurare è che “Black Summer” non è il tipo di brano che cerca il consenso di un pubblico diverso o più giovane come provava a fare “Dark Necessities”, rivuole semplicemente indietro il suo di qualche anno prima. E secondo me se lo sta già riconquistando, poi il resto verrà da sé.”

— Onda Musicale

Tags: Red Hot Chili Peppers, John Frusciante
Sponsorizzato
Leggi anche
Masterclass e corsi estivi ad Assisi Suono Sacro 2022
L’11 febbraio entra “Ora”, l’album di Alberto Nemo