Recensioni e Interviste

Marco Cignoli e il suo Coccodrillo bianco: l’irresistibile leggerezza del nuovo synth pop italiano

Su una cosa possiamo star sicuri: Marco Cignoli è un artista sensibile. Sensibile e musicalmente preparato, soprattutto sulla cifra poetica del cantautorato italiano di quattro decenni fa.

Sì, perché questo giovane cantante classe ’88, pavese di Voghera, quel periodo deve averlo studiato molto bene. Il suo primo album si chiama infatti Coccodrillo Bianco, ed è una raffinata citazione di una iconica canzone che Alberto Radius compose all’inizio del 1979.

Se con il suo lavoro Alberto Radius diceva Good-Bye all’America prendendo le distanze da molti dei suoi miti vuoti ed illusori, con Coccodrillo Bianco Marco Cignoli sembra voler dire addio alle sue antiche timidezze, metabolizzare tutta la sua ansia, fino a depotenziarla e renderla innocua.  

un sorridente Marco Cignoli in una foto di Elena Bonini

Il genere musicale di Marco Cignoli potrebbe essere quello del synth-pop ma correremmo il rischio di fargli un torto, etichettandolo frettolosamente con superficialità colposa. Abbiamo ascoltato il disco di Marco Cignoli: nove canzoni originali tutte ben scritte, con testi che sono il frutto di un sincero lavoro di ricerca sonora e di delicate rivelazioni riguardanti la sua personalità.   

Già dalla prima traccia Mi devo abituare, si avverte la sincerità dell’autore, quando attacca Alla tua distanza, non mi abituerò mai, io ragazzo geloso, illuso e pieno di guai.

Le inquietudini del debuttante alle prese con le difficoltà del lavoro sono evocate in Cercala la notte.   

La tensione si allenta immediatamente nel pezzo successivo:

Invece scrivo canzoni, un tuffo nel suo passato adolescenziale su ritmi soft dance anni Ottanta, il ricordo dei sabati sera felici nella sua Voghera. Con Tamburo e con Autunno centrale le cose cambiano. Siamo nel “centro” del disco. La frase chiave di Tamburo è una sentenza: non c’è ricetta perfetta per la fame d’amore, Tamburo, si prende gioco di me. La musica si fa più drammatica e si rivela adatta a descrivere il problema che sembra avergli causato un trauma doloroso: quello legato agli attacchi di panico e alle crisi ansiogene.

In Autunno centrale la musica suona nuovamente leggera:

un italian synth pop godibile ed orecchiabile, nonostante il quesito all’interno del brano ispiri un senso di ansiosa malinconia: C’è qualcuno che vuole il mio autunno centrale, la voglia di urlare in cambio delle favole?

Clima di auto-assoluzione in Menù kebab: un soft-rock con qualche graffio elettrico e una tastiera ipnotica assai promettente. Proprio come un tipico menù kebab, che ha il grande merito di farci sentire felici nonostante i pochi spiccioli in tasca.

Peccato non sia a disposizione il testo di Bulgaria, interessante ed originale, probabilmente il pezzo del disco dal sapore più tipicamente indie. Ci è rimasta la curiosità di sapere come si pronuncia in bulgaro “macaise” o “ma caisse” ma soprattutto come si scrive. Questa informazione Marco Cignoli ce la deve.  

Suggestivo ed armonico l’attacco di Utopia, il brano più romantico dell’album.

Qui per la seconda volta Marco Cignoli pronuncia la parola favola. Un tema che si direbbe stargli ancora molto caro nonostante il tempo passi anche per lui. Sembra rendersene conto, terminando con un finale che sembra fugare ogni dubbio: ma questa è un’inutile fantasia.     

L’ultima canzone dell’album è un corpo a sé rispetto a tutto il resto.

Come tutte le altre otto tracce, anche Che ca**o sto dicendo è avvolta da un manto di introspezione esistenzialista di cui l’autore ha voluto parteciparci. Tuttavia, Che ca**o sto dicendo possiede una carica di scanzonata euforia che ci ha divertito e colpito sinceramente.

Per il pezzo di chiusura Marco Cignoli ha lasciato campo aperto all’autoironia. Sembra sinceramente sollevato quando attacca frasi decolpevolizzanti in grado di strapparci un sorriso.

Da Mica ho scritto io Innuendo a Mica ho ucciso io John Lennon, le rime di Marco Cingoli alternano stati di transito tra una leggerezza tardo adolescenziale e la concretezza di chi sta già facendo i conti con la vita: Bada Marco perdi il posto.      

Coccodrillo bianco è dunque un disco ricco di sonorità soft-pop con sfumature hip hop. Echeggia ovunque l’evanescenza degli Ottanta e dei Novanta, dalla patina effimera targata Audio 2 alle ambizioni pop dell’agronomo Luca Carboni. Ma si avvertono anche contaminazioni di bellezza, che includono la gentilezza di Tiziano Ferro ed il pulviscolo, immenso e impercettibile, dell’ultimo Lucio Dalla.

Per chi ama il genere pop, la certezza delle forme e dei cliché dettati dalle regole della nuova canzone leggera italiana.

— Onda Musicale

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