Myle è il nome d’arte di Emiliano Aimi, musicista emiliano di lungo corso che ha deciso di iniziare un percorso da solista, seppur attorniato di collaboratori eccellenti.
Lo abbiamo intervistato, in occasione dell’uscita del nuovo disco, “Is not here“.
Ciao, ci riassumi il tuo progetto musicale fin qui?
Myle è il mio riaffrontare la musica, che era stata la mia vita e il mio lavoro, dopo tanti anni. Ma con esperienza in più, ascolti in più, voglia di rischiare in più. La mia avventura musicale inizia al liceo, quasi come tutte le avventure musicali. O forse il prologo è alle medie. Suono la chitarra da che ho memoria, ascolto cantautori da che so cosa sia la musica. La mia avventura musicale inizia scrivendo canzoni, ancora prima di suonare “davvero”. Sì, perché non ho mai saputo fare le cose a metà (che poi cosa significa “a metà”? viaggi mentali personali, ecco): se suono la chitarra e so cantare devo scrivere musica. La vedevo così. E volevo scrivere di cose importanti, non di “oddio lei mi ha lasciato”, “mi piaci e andiamo a ballare”, eccetera. Della vita quotidiana non me ne è mai fregato nulla: volevo scrivere di grandi temi, di quelli che riguardano l’umanità! Poi per anni ho fatto il musicista davvero. Per lavoro, ecco. Tipo: “Cosa fai?” “Il Musicista” “Sì ma di lavoro?”. Ho suonato tanto e in tanti posti, pure in Inghilterra, pure con gente che possiamo definire importante.
Però?
Però suonavo e cantavo divertentissimi show di canzoni altrui. La gente si divertiva ma cosa stavo facendo? Che contributo stavo dando? Quindi fine, ho smesso e mi sono dato ad altro. Alla gastronomia, altra mia passione viscerale, alla ristorazione e poi al vino. Però in tutti questi anni avevo la musica a bussare la porta. Ho aspettato, per forza e un po’ per volere. Mi sono evoluto, ho ascoltato, ho imparato, ho capito che potevo e forse dovevo uscire da quello schema che in musica mi aveva plasmato. Eccomi. Ricomincio.
Che ispirazioni hai raccolto per realizzare “Is not here”, il nuovo disco?
Tantissime, da ogni punto di vista. La mia formazione di musica d’autore e rock, e forse ancora di più tutto ciò che ho ascoltato e approfondito negli ultimi 10 anni. Credo ci siano echi importanti di Peter Gabriel, David Bowie, dei primi anni ’80, della ballad d’autore americana, di Dalla, di tanti stili, ascolti e ispirazioni. Dal punto di vista tematico invece ho pescato a piene mani dall’attualità intesa non come fatti ed eventi ma come interpretazione del nostro tempo. Si parla certamente di alienazione, amore, guerra, emarginazione, solitudine, speranze, ingiustizia. Si parla molto della mia generazione, quella dei nati negli anni ’80 e primi ’90 che hanno fatto e stanno facendo da ponte tra il benessere e la sicurezza delle generazioni precedenti e la fluidità “totale” a cui ci ha abituati il presente. La ricerca dell’identità declinata in varie forme ed esperienze, della propria “collocazione” in un mondo e in una società che vogliono a tutti i costi apparire esigenti e perfetti, quando in realtà fanno vomitare. Tanti testi sono ispirati anche a versi di poeti contemporanei (viventi e non), perché credo che le arti “dialogando” possano comunicare ancora meglio il proprio messaggio.
Un’ora e dieci per quattordici canzoni: come mai un disco così consistente in un’epoca in cui si procede per frammenti?
Perché la frammentazione e l’immediatezza mi fanno schifo. Se vogliamo quantomeno raccontare una storia che faccia riflettere e magari porre qualche domanda, comunicare un’idea, non possiamo farlo procedendo per frammenti. La frammentazione e l’esigenza di immediatezza, di essere catchy, distruggono il pensiero e sviliscono chi ascolta, guarda o legge. Secondo le regole del mercato (discografico, ma non solo) gli individui non sono altro che una massa di imbecilli da soddisfare nei bisogni più semplici, più immediati. Il ritornello deve arrivare dopo 40-50 secondi altrimenti l’ascoltatore perde l’attenzione? La canzone deve durare tre minuti e quaranta? No, non ci sto, vaffanculo. Voglio pensare che le persone cerchino stimoli di riflessione, o anche solo di bellezza artistica, più profondi e duraturi. Se non fosse così, la nostra società sarebbe fottuta. E probabilmente lo è, se ci penso. Cerco di pensare a una visione d’insieme, a qualcosa che non si fermi alle prime note e ai primi minuti. E comunque più approfondisco e più torno al punto di partenza. La frammentazione e l’immediatezza mi fanno schifo.
Ascolti musica italiana oppure i tuoi riferimenti sono tutti internazionali?
Ascolto tanta musica italiana, certo, anche se conosco poco o niente del panorama della musica italiana di oggi. Sono nato e cresciuto coi cantautori: De André, Dalla, Vecchioni, De Gregori, Battisti, Guccini, Fossati, Gaber, Bennato… Ma anche con Fortis, con la Rettore, con i Matia Bazar del periodo elettronico (forse la mia più recente folgorazione italiana… meglio tardi che mai), con il primo Vasco, con la PFM, i Nomadi, gli Area, il Banco di Mutuo Soccorso, gli Afterhours, i Timoria, e tanti altri. Insieme ai miei riferimenti internazionali, su tutti e prima di tutti Bob Dylan e negli ultimi anni Peter Gabriel. E David Bowie, Elton John, Leonard Cohen, David Byrne, Paul Simon, Neil Young, John Lennon, Cat Stevens, Harry Nilsson, Don mcLean, Bill Withers, Clash, Police, Beatles, REM, Genesis, Fleetwood Mac, Dave Matthews Band, Verve, Blur, LCD Soundsystem, Traffic, Byrds, Stone Roses, Simple Minds, Alan Parsons Project, Television, Smiths, Calexico… E anche qui mi fermo altrimenti non finisco più.
Che progetti hai per il prossimo futuro?
Continuare senza sosta a fare ciò che posso per portare avanti le mie idee e ciò che voglio comunicare. Se con la musica, tanto meglio. Ci sarà un tour? Forse, anzi spero di sì, ma ancora non c’è nulla di organizzato. Ci sarà un altro disco? Stessa risposta. Per ora la speranza è che quante più persone possibili possano ascoltare Is Not Here. Saranno loro a farmi capire cosa potrò fare. La volontà di raccontare, scrivere e cantare c’è, se è questa la domanda.