Si intitola “Avevamo ragione” il nuovo disco del cantautore sardo Gabriele Masala, lavoro che ospita liriche nuove a firma di un grande come Enrico Ruggeri.
E tutto questo ci porta inevitabilmente a pensare ad un disco che suoni pop dai contorni di rock dentro cui l’irruenza si concede morbida alle distese romantiche di contemplazione. Sono tutti quei modi e quelle forme che da sempre ha un certo tipo di canzone d’autore pop, stilemi che la Factory di Ruggeri ha spesso sfornato nelle sue produzioni, personali e di artisti collaterali. Questo nuovo disco di Gabriele Masala dal titolo “Avevamo ragione” è un lavoro pulito, credibile, che scivola senza scossoni e senza rivoluzioni… ma anche star dentro i sentieri battuti con personalità e mestiere non è mica facile…
Per prima cosa parliamo di rock italiano. Disco che fa tornare alla mente gli anni ’80 e ’90 ma anche tanto rock moderno. Il tutto dentro la morbidezza poetica di un cantautore. Che rapporto hai con quel tempo?
“Il “tempo musicale” che stiamo vivendo non mi appassiona e non mi entusiasma. Troppa omologazione sonora e testi quasi sempre privi di contenuti. Sono cresciuto con la musica rock e cantautorale italiana e di conseguenza le mie produzioni ripercorrono quelle strade. Credo fortemente che la valenza di una canzone si misuri su due fronti: i contenuti e la durata che avrà nel tempo. Non sono così sicuro che tra una ventina di anni canteremo i brani che ascoltiamo in questo periodo, viceversa sono abbastanza convinto che continueremo a rimpiangere la musica anni 70/80 e qualcosa dei 90. Nell’ultimo ventennio sono pochissime le cose che stanno resistendo all’usura del tempo, ahimè».
Il cantautore oggi invece che ruolo sta assumendo in società?
«Grazie alla fruizione praticamente gratuita della musica, c’è, da parte dei giovani, una totale mancanza di rispetto e di ascolto “corretto” nei confronti di chi prova comunque a proporre contenuti. Sino a poco tempo fa venivano riconosciute alla musica le dovute attenzioni, alla pari di un romanzo e o di un’opera d’arte importante; oggi purtroppo assistiamo ad un appiattimento culturale nei confronti della musica, perché il fatto stesso di poterne usufruire gratuitamente svilisce l’opera e le toglie i dovuti riconoscimenti, anche quelli economici ovviamente. Sino ad una trentina di anni fa il cantautore era quello che smuoveva le coscienze, poteva anche fermare una guerra con una sola canzone, oggi, grazie anche ai talent (ad esempio) tutto ciò è irrealizzabile, in quanto si cerca di portare avanti solo “mediocri interpreti” e non grandi comunicatori».
“Avevamo ragione” è un titolo che nasce da cosa? Sulle prime sembra un titolo da chi in fondo ci faceva una predica che non era comodo ascoltare…
«Avevamo ragione è un brano in cui proviamo a far porre delle domande all’ascoltatore, si parla di non dare tutto per scontato, di prendere coscienza, di sviluppare un senso critico. È un’analisi sui poteri forti, sui quei pochi “eletti” che prendono le decisioni per tutti. È una canzone fortemente provocatoria ed anche il suo videoclip ha voluto seguire questa idea».
Sarà il pregiudizio di questa copertina ma amo dare un colore ai dischi: e questo disco è di un bianco sporco. La bellezza degli uomini sporcata dalle loro maschere e dalle tante macchinazioni ipocrite. La vita contro gli affare sporchi… tu che ne pensi?
«Hai centrato in pieno il discorso. Il titolo dell’album inizialmente doveva essere “Personae” (scritto in latino) che vuol dire proprio “maschere”. Poi abbiamo scelto insieme di migrare su un titolo che fosse anche un brano presente e che ne identificasse i contenuti. In molte canzoni (La borghesia, La fine dell’impero, Zelig) si parla proprio anche della mediocrità dell’uomo e delle sue piccolezze. Abbiamo provato ad analizzare questi aspetti che l’uomo si porta dietro da millenni».
E tra questi inediti penso che l’elettronica de “La fine dell’impero” sia davvero affascinante. Hai richiamato un poco il tempo dei Decibel come fosse una citazione di stile?
«Esatto. Non è un caso che i synth e le tastiere di quel brano siano stati suonati da Silvio Capeccia (fondatore dei Decibel con Ruggeri e padre del punk italiano). Mi sembrava stilisticamente il brano più adatto in cui inserire quelle tipiche sonorità e un arrangiamento che riporta a quegli anni. Sono onorato di aver potuto collaborare anche con un musicista del calibro di Capeccia e anche lui ha dato un apporto creativo molto importante a tutto il lavoro».