Recensioni e Interviste

“Mushin”, il nuovo album di Flavio Zen

"Mushin" il nuovo album di Flavio Zen

Intervista al rapper salentino.

“Mushin”, è il tuo nuovo album. Ci racconti come è nato? Quanto tempo hai impiegato nella realizzazione dei brani?

«I miei album come al solito nascono da soli, mi spiego, non hanno una genesi predefinita del tipo “ora faccio un album”, per me Album significa racchiudere un periodo particolare del percorso di vita. Mi rendo conto quando un periodo della mia vita si è chiuso e se ne apre un altro quando inizio a fare musica diversa. La musica scandisce da anni la mia vita quindi molto spesso chiudere un album, per me, significa chiudere un capitolo della mia vita e iniziare qualcosa di nuovo. Nel caso di Mushin, questo percorso è stato particolarmente lungo, più di tre anni. I brani in sé hanno una gestazione piccola, tecnicamente per fare un brano ci impiego uno o due giorni, è tutta la vita che c’è in mezzo fra un brano e l’altro che fa l’album.»

Nella tua musica ci sono tantissimi riferimenti all’Oriente e in particolare al Giappone, come è nata questa passione? Sei mai stato in Giappone?

«Purtroppo, no, non ho mai visitato il Giappone e me ne rammarico (ho paura dell’aereo in maniera decisamente patologica e ho intenzione di iniziare un percorso di psicoterapia che mi aiuti a superare questo blocco, se avete consigli scrivetemi in DM). La passione per il Giappone in sé credo che me l’abbia trasmessa mio padre, che, oltre ad essere abile nella pittura e nella scultura, praticava karate da giovane ed è sempre stato un appassionato di film di arti marziali. Indirettamente mio padre è stato da sempre interessato, senza saperlo, all’estetica wabi-sabi che l’ha sempre spinto a costruire oggetti d’arredo con materiale di riciclo o a dipingere paesaggi con tratti semplici e definiti. Questa è una cosa di lui che ho sempre ammirato e che mi ha lentamente avvicinato al Giappone e al buddhismo zen. Il resto del lavoro sicuramente l’ha fatto quella tonnellata di anime che ho divorato nell’infanzia di cui tutt’ora sono fan.»

Rispetto a tanti altri emergenti, tu hai già una tua fanbase. Che rapporto hai con i tuoi fan?

«La prima cosa che credo di avere in più rispetto agli altri emergenti è l’età! Scherzo, con la gente che mi segue tendo sempre ad avere un rapporto molto confidenziale soprattutto con quelli che mi seguono dall’inizio. Seppur facendo musica oramai da più di 15 anni non credo di essermi mai “raffreddato” più di tanto nei rapporti con i fan. Ritengo che sia molto importante mostrare estremo rispetto verso chiunque decida di dedicare e investire il proprio tempo nell’ascolto della mia musica e soprattutto nel mostrare interesse quando mi scrivono di persona o quando condividono i miei lavori.»

Come sei riuscito a costruirti una fanbase? Qual è stato il tuo punto di forza?

«Non saprei, credo che la gente ami chi riesca ad essere come uno specchio in grado di mostrare alcune parti nascoste di sé. Per me è importante essere trasparente e naturale e poi credo che non prendersi troppo sul serio sia essenziale per farsi prendere sul serio, sembra un paradosso ma è così.»

In una società con livelli di attenzione molto bassi, pensi che abbia ancora senso pubblicare dei dischi?

«Ha senso per me. Ci sono molte cose che cambiano con la società e noi ci adattiamo ad essa perché siamo noi a modificarla pian piano dal basso. Mushin ha avuto una gestazione molto lunga proprio per il motivo sottinteso nella domanda, volevo uscire con dei singoli fino a tempo indefinito, ma quando poi ho intravisto qualcosa all’interno dei brani che avevo fatto fino a quel punto non ho resistito, e ho deciso di uscire col disco e di stampare addirittura le copie fisiche, cosa ancora più obsoleta del fare un disco. Fortunatamente c’è ancora gente che apprezza gli album e che compra i dischi fisici, vi amo!»

Tornando a “Mushin”, qual è il brano a cui sei più legato?

«Credo Shinobu, ma solo perché è la primogenita di questa famiglia che è il disco ma ce ne sono altre che per me sono molto rappresentative e non so se riuscirei a scegliere perché in ognuna c’è qualcosa di me che in un altro brano non c’è. Sono molto legato a “Kotodama” (che è la divinità giapponese della parola) perché chiude il mio percorso di laurea in comunicazione. Tengo molto a “Sotto la mia pelle” perché racconta di tutti quei rapporti umani che ci portiamo dietro e che plasmano la nostra identità nonostante le distanze. “Con i beats” è la mia rivincita personale dopo anni di sacrifici in cui posso finalmente affermare con orgoglio che vivo di musica e via dicendo, in ogni brano c’è una parte della mia identità e della mia vita.»

C’è un brano che dedicheresti ai tuoi fan?

«Penso “Sciamani”, e colgo l’occasione per ringraziare martino Corrias per averne arrangiato le chitarre. É un brano molto poco canonico nella mia produzione artistica in cui abbraccio stili hyper-pop mai esplorati prima d’ora con cui ho provato ad avvicinarmi a un altro tipo di ascoltatori con abitudini musicali differenti dal rap. Nel brano parlo di accettazione di sé, di affrontare i propri mostri o, perché no, di lasciarli chiusi dentro l’armadio se non si ha ancora il coraggio di affrontarli e di prendere la vita e le vicende in essa come maestri che ci insegnano chi vogliamo essere.»

— Onda Musicale

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