I padovani Winter Dust sono sulle scene da diversi anni; ma con l’ultimo album “Unisono” hanno mescolato le carte con sapienza ed una buona dose di audacia.
I Winter Dust hanno aggiunto una tastierista alla loro formazione classica e hanno abbandonato l’inglese in favore di liriche in Italiano, scelta che sembra aver sortito gli effetti sperati. “Unisono” sta ricevendo attenzione e consensi. È l’occasione per intervistarli in questo momento importante per la band.
Con “Unisono” avete deciso di cambiare lingua per i vostri testi e siete passati all’italiano. Da cosa è nata questa scelta? Ora che questo album è uscito, siete convinti che sia stata una scelta azzeccata?
L’idea di cantare in italiano non ci aveva mai sfiorato in passato, vuoi anche per il fatto che la voce non è mai stato un elemento predominante nelle nostre canzoni. Con questo nuovo lavoro, considerate le cose di cui volevamo parlare e le sensazioni che volevamo trasmettere, ci è sembrato naturale utilizzare di più la voce, e in questo senso farlo nella nostra lingua è apparsa subito una cosa quasi automatica. Certo, un cambio così netto è sempre fonte di preoccupazione, ma tutti nella band abbiamo accolto questa idea di Marco (Vezzaro, il nostro cantante e autore dei testi) molto positivamente. E credo di poter dire che sì, è stata una scelta giusta. Penso che, almeno per quanto riguarda il pubblico italiano, ascoltarci nella propria lingua ci permetta di apparire più vicini, farci capire di più, ed è proprio quello che abbiamo cercato di fare con “Unisono”. La cosa che ci ha stupito, poi, è che anche molti dei nostri ascoltatori stranieri hanno apprezzato il disco, pur senza conoscere la lingua.
A livello di composizione, ci sono stati cambiamenti altrettanto importanti? Cosa ha comportato aggiungere una tastierista alla vostra formazione?
All’interno di “Unisono” ci sono canzoni più immediate rispetto ai nostri dischi precedenti, forse le più dirette che abbiamo mai composto. Per certi versi è una sorta di ritorno alle nostre origini più emo e punk, ma con la consapevolezza degli anni che sono passati. In realtà, dal punto di vista puramente pratico, il processo compositivo si è sviluppato come sempre, con i brani che nascono da una bozza di Marco (Vezzaro) e poi in saletta si espandono con i contributi di tutti fino ad arrivare poi in studio (quasi) compiuti. L’ingresso in pianta stabile di Giulia, che già ci aveva accompagnato nei concerti dal vivo dopo l’uscita di “Sense By Erosion”, ci ha sicuramente dato una spinta in più. Le parti di piano e synth, composte e arrangiate di fatto a quattro mani con l’altro tastierista Marco (Belloni…dobbiamo risolvere questa cosa che ci chiamiamo quasi tutti Marco ahah), sono più ricche e centrate, anche perché Marco e Giulia lavorano e vivono con la musica, hanno un approccio professionale e questo spinge anche noi altri, che siamo fondamentalmente dei cialtroni, a fare di più.
C’è spazio in Italia per un ritorno di una certa musica alternativa nata nell’underground ma apprezzabile anche a chi non proviene dallo stesso circuito? Il vostro disco è estremamente godibile, per niente ostico e potenzialmente potrebbe intersecare diverse tipologie di ascoltatori. C’è una certa permeabilità tra underground e mainstream nel vostro genere musicale oppure è un discorso che può funzionare solo su altri generi musicali (rap su tutti, oggigiorno)?
Viviamo in un periodo storico in cui i confini tra musica underground e musica mainstream sono molto sottili, in cui ci sono realtà che saltano continuamente di qua e di là della staccionata. Infine, un mondo in cui sempre più spesso anche dall’universo mainstream arrivano prodotti anche più ispirati e innovativi di tanti altri che arrivano dal mondo underground. Insomma, è tutto molto complesso. Credo che questo scenario si possa riscontrare in tutti i generi, non solo nel rap, che chiaramente però è quello dove tutto questo è più evidente. Dal canto nostro – siamo una realtà piccola e fedelmente underground, se ancora si può dire – non abbiamo mai ragionato coscientemente in questi termini. In fase di composizione dei pezzi non abbiamo pensato se questo o quel brano potesse avere dei suoni o delle caratteristiche che potessero essere apprezzate da un pubblico più ampio o meno Ma se ne è uscito fuori un disco godibile e accessibile a tante persone ci fa solo piacere.
Avete curato molto l’aspetto estetico e l’aspetto visivo della vostra comunicazione. Quanto conta saper associare le immagini giuste alla musica nel momento in cui essa viene fruita per larga parte su dispositivi digitali? Cosa consigliereste a chi volesse prendere spunto dalla vostra esperienza?
Il legame tra musica ed immagine ci ha sempre interessato e abbiamo fatto sempre del nostro meglio per tenerlo il più stretto possibile. Come dici giustamente, oggi che siamo letteralmente circondati da quantità insostenibile di musica che possiamo ascoltare – e dimenticare – nel tempo di un clic, è fondamentale saper affiancare alle canzoni dei contenuti extra che aiutino a farle emergere. Curare l’artwork in maniera maniacale; cercare di dare un volto ai pezzi tramite video e foto. Sono consigli forse banali, ma sono quelli che mi sento di poter dare.
Cosa significa il giorno d’oggi essere un gruppo indipendente? Qual è la maggiore difficoltà nel fare musica, produrla, promuoverla e portarla dal vivo?
Come dicevamo prima, i confini tra musica indipendente e musica mainstream oggi sono sempre più sottili e mobili. Nella realtà, con tutti i distinguo del caso, l’impegno che si deve dedicare ad una produzione underground non è così dissimile. La difficoltà maggiore per noi, che non siamo più così giovani, è riuscire a trovare il tempo e lo spazio per la musica in una vita fatta di impegni lavorativi, famigliari e quant’altro. Scrivere e registrare un disco richiede tempo, impegno e fatica, anche dal punto di vista economico, così come promuoverlo e portarlo in giro. Tutto si fa fondamentalmente per passione, e la sfida è tenerla sempre accesa, soprattutto nei momenti in cui le cose non vanno come si vorrebbe. Oltre alle nostre etichette, noi collaboriamo con un’agenzia di booking (Grato Cuore) e un ufficio stampa (Epidemic), che ci danno una grandissima mano nel provare a far arrivare il nostro disco il più lontano possibile.
Tornando a parlare di “Unisono”, ci sono canzoni che sono nate in un modo e sono finite con l’essere completamente diverse? Cosa è cambiato? Qual è il processo che ha portato a questi cambiamenti?
In realtà, salvo qualche piccolo aggiustamento di rotta, la struttura dei brani così com’è nata così poi l’abbiamo messa su disco. Siamo stati convinti fin da subito delle idee che avevamo e le abbiamo sviluppate tutti insieme, con i contributi di ognuno di noi. Se c’è un brano del disco che ha subito il maggior stravolgimento è sicuramente la title-track. La parte di batteria è stata quasi del tutto riscritta direttamente in studio mentre la registravamo, dando al brano, almeno secondo me, una veste davvero migliore. E qui dobbiamo ringraziare tantissimo Matteo del Raptor Studio, lo studio di Vicenza dove abbiamo registrato il disco, la spinta è partita da lui.
Ci sono altri gruppi italiani che credete stiano facendo qualcosa di interessante e che il vostro pubblico dovrebbe considerare?
Ti faccio qualche nome a ruota libera, progetti diversi tra loro ma tutti secondo me da tenere d’occhio: Six Impossible Things (con i quali abbiamo collaborato in due brani di “Unisono”); I Like Allie, Shelt, Vinnie Marakas, Fosca, Jaguero, Amalia Bloom.
Cosa possiamo aspettarci dai Winter Dust nel resto del 2023?
Sarò banale, ma il nostro piano è semplicemente provare a suonare “Unisono” il più possibile dal vivo e farlo ascoltare a più persone possibile. Ci teniamo davvero molto. Grazie mille per lo spazio che ci avete concesso, è stato un piacere!